L’Europa frena la vendita online «Si torna ai negozi» qui

BRUXELLES -Quarant’anni fa nasceva Internet, e ormai da oltre vent’anni «clicchi e compri», come diceva un vecchio slogan: cioè acquisti i tuoi prodotti sulla rete, da venditori senza volto.
Scarpe, giubbotti, giocattoli, libri, si compra e si vende praticamente di tutto. E pure in saldo: un sito italiano di scarpe, l’altro ieri, vantava saldi con sconti fino al 70%, «per 150 marche e 5000 modelli».
Ma anche gli imbrogli, o i semplici intoppi, abbondano. Specialmente negli acquisti oltre confine, governati da leggi di nazioni diverse: in Europa il 61% delle ordinazioni «online» da un Paese all’altro, secondo gli ultimi dati della Commissione Europea, non va in porto per una qualsiasi ragione. E a volte, seguono liti senza fine.
Per questo, ora, la stessa Commissione vuole mettere ordine, vuole riarmonizzare le varie direttive comunitarie sui diritti dei consumatori varate dagli anni ’80 in poi. È stata avviata una consultazione con gli Stati-membri, gruppi di esperti sono al lavoro. E si pensa anche a piantare dei paletti legislativi.

Per esempio, protesta Greg Greeley, vicepresidente commerciale di Amazon, in un commento pubblicato ieri dal Wall Street Journal, si pensa a emarginare dalla rete i venditori puramente «virtuali», si vorrebbe obbligarli ad avere prima un negozio «vero», 4 mura con bancone, cassa e commesso, se vogliono poi commerciare sul Web.
Come? «Le regole all’esame della Ue consentirebbero ai produttori di articoli quotidiani, come i giocattoli o i prodotti da cucina, di esigere dai loro venditori al dettaglio che abbiano un negozio tradizionale (letteralmente «di mattoni e malta», ndr) e che in quel negozio vendano un certo quantitativo di quei prodotti, calcolato in volume o in valore».
Greg Greeley è il vicepresidente del settore al dettaglio di uno dei più grandi fra i venditori puramente virtuali, e cioè Amazon Europe: il colosso in grado di spedirti a casa quasi ogni libro mai stampato al mondo, pur senza avere una libreria «fisica».
Perciò può dire, dal suo punto di vista, che quella di Bruxelles è una forma di «discriminazione », il tentativo di «soffocare la competizione dei venditori online, gente che lavora duro per assicurare efficienza a prezzi più bassi».
E c’è anche chi avanza, per così dire, obiezioni più ideologiche: secondo Jeremy Zimmermann, fondatore di un’associazione per la difesa delle libertà digitali nella Ue, limitare le vendite online attraverso nuove regole «è sbagliato, e comunque sarebbe come cercare di vuotare il mare con un cucchiaio ».

Dal fronte opposto, gli esperti della Commissione chiariscono però che oggi è il consumatore, non il produttore, a non essere sufficientemente protetto sulla rete: se hai ordinato una fiammante cyber sveglia prodotta in Finlandia e a casa ti arriva un cipollone ansimante «made in China», a chi puoi chiedere giustizia?
E se al posto di un acquario da salotto ricevi un truogolo da stalla?
Per dirla con Meglena Kuneva, la commissaria uscente ai diritti del consumatore: «i consumatori europei meritano di meglio». L’ipotesi del «negozio di mattoni e malta» più o meno obbligatorio per chi vuole vendere anche su Internet, è effettivamente fra quelle che Bruxelles sta studiando.
Ma ce ne sono anche molte altre, e le consultazioni andranno probabilmente avanti per un bel po’ di tempo. Anche perché tutta la materia, sul piano legislativo e su quello tecnico-amministrativo, è tremendamente complessa.
E tanto per cambiare, sono enormi gli interessi in gioco: oltre 150 milioni di cittadini dei Paesi Ue, sempre secondo i dati di Bruxelles, hanno comprato una o più volte qualche prodotto su Internet, in patria o al di là del confine, per un giro d’affari complessivo che nel 2006 superava già i 106 miliardi di euro.
Cifre non lontane da quelle del gigantesco mercato americano, e concentrate soprattutto su 3 mercati: Gran Bretagna (dove il 57% dei navigatori su Internet ha acquistato beni o servizi online durante l’ultimo anno) Francia (66%), e Germania. Quanto all’Italia, sta a metà fila con la Grecia e il Portogallo: nel 2008, il 10% dei suoi consumatori adulti aveva fatto almeno un acquisto online, e magari in saldo

Autore: Luigi Offeddu
Fonte:  Corriere.it

Andrea Spedale

Da sempre appassionato di informatica e commercio. Queste passioni hanno influenzato le scelte formative (perito informatico, laurea in economia e commercio con tesi “marketing e nuove tecnologie di comunicazione”) e le scelte di vita (imprenditore ed e-imprenditore). E' un imprenditore nel settore industriale e dall’ottobre 2002 anche un e-imprenditore con diversi negozi attivi on-line in 3 diversi settori. Nel settembre 2004 ha dato il via al progetto aicel e nel e settembre 2007 ha fondato AICEL la prima e unica associazione italiana dedicata al commercio elettronico dove attualmente ricopre la carica di presidente.

4 Commenti
  1. Sarebbe utile che per controllare la validità di una Partita IVA in un sito e-commerce non fosse limitata alla sola dichiarazione della sua esistenza che fornisce una falsa sicurezza: tre anni fa, un furbacchione aveva pubblicato la MIA partita IVA (fra l’altro non riguardante l’e-commerce) che aveva dato alla sua pagina una parvenza di regolarità e così era riuscito a truffare diecine di acquirenti. Me ne sono accorta quando qualcuno ha telefonato dopo aver rintracciato la mia P.IVA su Internet. Insomma, accertarsi che una P.IVA è esistente non è sufficiente, sarebbe utile ottenere più dettagli da poter controllare.

  2. Il problema non cambia! Si tratta sempre di garanzie “virtuali”, come il numero di P.IVA, che si lasciano scrivere e possono ingannare perché non tutti vanno a controllare, proprio come è successo a questo sito che aveva pubblicato il mio. Delle centinaia di acquirenti che si sono lasciati fregare, uno solo ha controllato più a fondo e ha fatto scattare l’inchiesta solo perché io sono corsa a fare denuncia alla GdF usando mezza giornata.

  3. La questione è solo il naturale decorrere di qualsiasi rapporto commerciale. Se compro un bene o un servizio posso non rimanere soddisfatto sia da un’attività online che “tradizionale”. Le regolamentazioni online risultano ancora lente e spesso burocratizzanti perchè in generaleil commercio elettronico è una minaccia per le grandi GDO. Il mercato online a mio parere non disturbava il mondo Tourism&Travel ma se si parla di Retail di generi di consumo, alimentari e spesso anche farmaceutica allora arrivano i “freni”.

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