Il commercio elettronico garantisce la concorrenza e non può dunque essere vietato.
E' questa in sintesi quanto esposto nella Sentenza della Corte di Giustizia Europea sul caso sollevato dalla Pierre Fabre Dermo-Cosmétique (PFDC), società francese produttrice di cosmetici e che gestisce i marchi Avène, Klorane, Galénic e Ducray i cui contratti di distribuzione comprendono una clausola in forza della quale tutte le vendite devono essere effettuate in uno spazio fisico e in presenza di un laureato in farmacia, vietando così di fatto tutte le forme di vendita via Internet.
Nell'ottobre 2008 l'Autorità francese per la Concorrenza (Autorité de la Concurrence), aveva dichiarato che questo tipo di clausole, vietando di fatto tutte le vendite su Internet, costituivano pratiche anticoncorrenziali che violavano il Codice del Commercio francese, nonché il diritto della concorrenza della Ue stabilito dall'Art.81 del Trattato CE
La Corte di Giustizia Europea non ha accolto il ricorso della PFDC che riteneva che i loro prodotti potessero beneficiare dell'esenzione stabilita dall'Art.81 n.3.
La Corte si è espressa indicando che “Il rifiuto assoluto da parte di Pierre-Fabre di permettere ai distributori francesi di vendere i suoi prodotti su internet appare sproporzionato”, visto che non si trattava in quel caso di prodotti farmaceutici ma di prodotti cosmetici.
Il divieto di vendere on-line un prodotto in assenza di requisiti specifici concessi solo per casi eccezionali, è quindi da considerarsi a tutti gli effetti un accordo anticoncorrenziale che viola il Codice del Commercio francese, nonché il diritto della concorrenza dell'UE.
La decisione presa dalla Corte di Giustizia Europea, come sempre accade, ha un grande valore perché fissa un precedente importante che il giudice nazionale dovrà tenere presente al momento di prendere una decisione in merito a casi analoghi anche per settori differenti a quello della cosmesi.
Se un prodotto può essere venduto attraverso il Commercio Elettronico, nessuno può di fatto lo può impedire.
Il divieto sarebbe da considerarsi una pratica anticoncorrenziale che potrebbe portare all'aumento dei prezzi, con eccessive ricadute del danno sulle spalle dei consumatori.
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